Diversity Management: passa da qui la creazione di valore. È un argomento correlato al tema della sostenibilità sociale che sta ricevendo sempre più attenzione da parte delle organizzazioni, complice un mondo sempre più globalizzato e dinamico e una nuova sensibilità verso l’importanza dell’unicità e della diversità delle persone.

Quando si parla di diversity management, riprendendo l’impostazione data da Taylor Cox[1], si fa riferimento ad un insieme di attività che prevedono la pianificazione e l’implementazione di sistemi e pratiche organizzative per gestire le persone in modo che i potenziali vantaggi della diversità siano massimizzati, mentre i suoi potenziali svantaggi siano ridotti al minimo.

Con diversità si intende una serie di caratteristiche personali e di background che differenziano le persone tra loro; tra queste l’età, il genere, l’orientamento sessuale, l’etnia, la religione, la nazionalità, la disabilità, l’educazione ed altri fattori che generano appunto differenziazioni.

Il diversity management è quindi un approccio organizzativo che mira a promuovere l’inclusione di dipendenti di diversa estrazione nella struttura dell’organizzazione attraverso politiche e programmi specifici, cercando di valorizzare le differenze e di creare un ambiente di lavoro inclusivo e rispettoso. L’obiettivo è quello di sfruttare al meglio la forza lavoro qualificata, integrando background, culture e competenze in team eterogenei e, possibilmente, più performanti. In questo modo, le organizzazioni possono perseguire diversi obiettivi, in termini di maggiore produttività, di creatività diffusa, di soddisfazione dei dipendenti e di comunicazione interna ed esterna di sostenibilità sociale.

Gestire la diversità non significa coltivare soltanto la capacità di un contesto lavorativo ad essere inclusivo, ma anche l’attitudine ad essere contestualmente attrattivo. A livello operativo la gestione della diversità coinvolge vari programmi organizzativi e pratiche dell’area risorse umane, come il reclutamento mirato, la formazione sulla diversità, i programmi di mentoring, le azioni per favorire lo sviluppo e la promozione di azioni positive.

Thomas ed Ely[2] identificano tre approcci che le organizzazioni adottano nella gestione della diversità:

  • discriminazione ed equità, in base al quale si opera per garantire che i dipendenti siano trattati allo stesso modo e che nessuno abbia un vantaggio ingiusto rispetto agli altri. Questo paradigma si fonda sul concetto di pari opportunità e misura il progresso rispetto alla diversità in base agli obiettivi di reclutamento e fidelizzazione conseguiti dall’azienda. Ha una limitazione evidente, il presupposto che le persone siano tutte uguali ed aspirino tutte ad essere uguali. Ciò produce internamente distorsioni: si tende ad evitare che tra i dipendenti vengano enfatizzate le differenze (significative) presenti tra di loro. Collegato a questo poi si genera l’ulteriore deleterio effetto, nell’interesse prevalente di preservare l’armonia nei teams, che il management tende ad ignorare invece importanti differenze tra le persone;
  • accesso e legittimità, in base al quale il contesto aziendale opera per la celebrazione delle differenze, poiché sulle stesse vengono costruite le opportunità di business. Si pensi ad esempio a tutti quei casi in cui la necessità di espansione in determinati mercati o l’esigenza di presidiare specifiche nicchie di consumatori hanno spinto le aziende all’impiego di lavoratori appartenenti ad etnie minoritarie che meglio avrebbero perforato (per ragioni di linguaggio, di cultura, di riconoscibilità) sul target. In altre parole le aziende che seguono questo paradigma operano quasi sempre in un contesto in cui vi è diversità tra i clienti e nei team di lavoro. Hanno quindi una motivazione market-driven sul tema della diversità; ciò le porta ad allocare i dipendenti laddove le loro diversità (età, sesso, etnia, ecc) risultano coerenti con i mercati di riferimento. Questo approccio sconta però un limite piuttosto evidente: questo modo di allocare la diversità infatti porta a non analizzare compiutamente la performance della persona nel lavoro assegnato limitando l’utilizzo solo a quel contesto, rischiando di perdere l’opportunità di valorizzazione in contesti più core dell’azienda. Si pensi ad esempio alle assunzioni di dipendenti rappresentativi di certe minoranze (linguistiche, demografiche, etniche, ecc) fatte per ottenere l’accesso e la legittimità all’interno di specifici mercati ed il loro consolidamento in quei ruoli senza ulteriori riflessioni per il loro avanzamento di carriera altrove all’interno dell’azienda;
  • apprendimento ed efficacia, in base al quale l’azienda opera per promuovere le pari opportunità, riconosce le differenze culturali ed attribuisce valore a tali differenze. Questo paradigma tende a superare le limitazioni dei due precedenti; qui le aziende sviluppano una visione della diversità che le porta ad incorporare le prospettive dei dipendenti nel lavoro dell’organizzazione e, di conseguenza, a migliorare le modalità di lavoro, riprogettando le attività e ridefinendo i mercati, i prodotti, le strategie, lo stile gestionale e la cultura organizzativa. In altre parole le aziende alimentano la propria crescita grazie proprio alla diversità dei dipendenti.

La transizione verso un’organizzazione di apprendimento ed efficacia richiede che si realizzino diverse precondizioni. Ciò che però attiva la dinamica è la maturazione di una profonda consapevolezza da parte della leadership aziendale che dalla diversità della forza lavoro si possono davvero generare nuovi e potenti prospettive e approcci al lavoro. È davvero una opportunità di apprendimento immediatamente disponibile a cui collegare coerentemente una nuova cultura organizzativa in grado di produrre l’elevazione dello standard di prestazione, di stimolare lo sviluppo personale, di incoraggiare e favorire l’apertura, generando un diffuso senso di coinvolgimento delle persone.

Il focus generato dalla diffusione di tematiche legate alla sostenibilità sociale (come anche quella ambientale del resto) garantisce una solida base di costruzione di politiche a lungo termine di diversity management. Si devono considerate superati quei contesti storici in cui le aziende hanno commesso diversi errori nell’affrontare il tema della diversità. Il principale forse è stato quello di considerare la diversità solo come un’obbligazione etica (e in casi specifici di legge) e non come una risorsa preziosa per l’organizzazione. Inoltre in molti casi, laddove adottate, le politiche di diversity management si sono rivelate superficiali e poco efficaci, limitate a promuovere la presenza di dipendenti di diversa estrazione senza valorizzare le loro differenze e competenze.

Altri errori fatali sono dipesi da gravi carenze nelle leadership e dal limitato coinvolgimento sul tema del top management dell’organizzazione e dalla sottovalutazione degli unconscious bias (pregiudizi impliciti, ossia atteggiamenti e stereotipi che gli individui attribuiscono inconsapevolmente ad altri, ma che influenzano i sistemi relazionali a tutti i livelli).

Tra gli errori infine anche il fatto che molte aziende abbiano sottovalutato l’importanza della diversità in termini di produttività, creatività e soddisfazione dei dipendenti, perdendo così l’opportunità di sfruttare appieno il potenziale delle loro risorse umane.

Occorre inoltre uno strumento riconosciuto di misurazione in grado di catturare i diversi tipi di gestione della diversità nelle organizzazioni.  La diversità è già un concetto ben noto e ben studiato nel mondo (Stati Uniti ed Europa in particolare). Ciò che manca è una strumentazione completa per misurare l’efficacia degli approcci strategici adottati dalle aziende per affrontare la diversità. In tal senso assume particolare rilevanza il lavoro di Podsiadlowski, Gröschke, Kogler, Springer e Van Der Zee[3] sulle relazioni tra le strategie di diversità implementate dalle aziende e i benefici e minacce percepite a livello di gruppo.

 

 

[1] Cox, T. (1993), Cultural Diversity in Organizations: Theory, Research & Practice, Berrett-Koehler Publishers

[2] Thomas, D. A. & Ely, R. J. (2019), HBR’s 10 Must Reads On Diversity: A New Paradigm for Managing Diversity, Harvard Business Review

[3] Podsiadlowski, A., Gröschke, D., Kogler, M., Springer, C. e van der Zee, K. (2012), Managing a culturally diverse workforce: Diversity perspectives in organizations, International Journal of Intercultural Relations.

 

 

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