Teams che non funzionano: le possibili cause. Le organizzazioni fondano la propria operatività su questi ecosistemi e dal loro corretto funzionamento dipende il raggiungimento degli obiettivi di business. La loro importanza è tale che richiedono nutrimento e le cure necessarie quando smettono di funzionare correttamente.

Nel 1993 Katzenbach e Smith[1] hanno fornito una definizione di team che ancora ben regge al passare degli anni, qualificandolo come “un piccolo numero di persone con competenze complementari che si impegnano per uno scopo comune, obiettivi di prestazione e approccio per i quali si ritengono reciprocamente responsabili”.

Siamo naturalmente abituati ad associare a team parole come coesione, scopo, coordinazione, competitività, collaborazione e condivisione. Ogni leader (o meglio capo-coach) non sempre può contare su un gruppo che riesce a soddisfare integralmente i contenuti di questa definizione e può pertanto essere costretto ad operare specifiche strategie mirate ai sottogruppi.

A seconda del contesto operativo, dallo stile di leadership, dalla tipologia di formazione implementata in azienda è possibile veder variamente identificati, tra gli altri, team del tipo:

  • Squadra, nel senso di idoneità del gruppo di muoversi come un’equipe sportiva, sulla base dell’idea che il gruppo possa prepararsi e muoversi idealmente come in un campo da calcio o da tennis o in uno specchio di mare per una regata. Il paradigma può funzionare ma non universalmente poiché, nonostante coach divenuti abilissimi formatori di culto, team così configurati possono non risultare coerenti negli ambienti basati prevalentemente sulla conoscenza. Diciamo che non è automatico rendere perfettamente adattive idee e strategie proprie dell’allenamento rivolte a gare periodiche che durano al massimo qualche ora (sebbene inserite in una competizione) con esigenze lavorative prettamente da ufficio dove il gioco invece dura per qualche anno;
  • Militare con l’obiettivo, ricorrendo ad esperti ex ufficiali delle forze armate o di corpi speciali, di sfruttare contesti in stile “campo di addestramento” che dovrebbero aiutare a sviluppare capacità adattive, di resilienza, di orientamento alla missione e di strategia, ma scade un po’ nel ridicolo quando nelle azioni formative vedi persone appese a corde con i visi sporchi di fango;
  • Japan-driven, guidati dal fascino esercitato dalla scuola di management giapponese che attribuisce efficacia e competitività ad organizzazioni (e team) in grado di ottimizzare 7 elementi, quelli che Richard Tanner Pascale e Anthony Athos[2] identificano nelle 7 S (Strategy, Structure, Systems, Staff, Style, Skills, Shared values). Questa impostazione si presta ad interventi di miglioramento non solo focalizzati sui processi ma sull’intera strategia che sta alla base del business. Richiede l’identificazione dei 7 elementi citati che non sempre, soprattutto nelle grandi organizzazioni, si riesce facilmente ad individuare;
  • Personality-driven, sulla base di un approccio, piuttosto radicale, di democrazia aziendale che spinge le persone alla responsabilizzazione e all’auto-direzione in una sorta di culto delle squadre di personalità, dove l’engagement si costruisce intorno alla libertà; ad esempio l’esperienza di Ricardo Semler[3] nell’azienda brasiliana Semco Partners racconta di una impostazione di devoluzione del potere ai dipendenti per creare una coesistenza paritaria tra incremento della produttività e soddisfazione delle persone.
  • HPT (High Performance Team), che si configura come un gruppo di persone sempre orientato all’eccellenza della prestazione, che fa leva sulla condivisione della leadership utilizzando un metodo Agile[4], di condivisione della leadership. Risponde ad un team tanto ideale quanto illusorio o quantomeno non universalmente implementabile; nella realtà infatti si tratta di team che dovrebbero avere al proprio interno una forte diversity che non raramente diviene fattore di attrazione di conflitti non sempre risolvibili. In altre parole, come detto da Katzenbach e Smith, sono team rari che sono dove li trovi piuttosto di dove vorresti che fossero.

Al di là comunque del modello di riferimento per la costruzione e la crescita del team la possibilità che nel gruppo venga a mancare quell’alchimia necessaria alla finalizzazione dei risultati, alla crescita professionale e del benessere delle persone è spesso presente. In tal caso è opportuno individuare le ragioni che portano il team a non funzionare. Harvey Robbins e Michael Finley[5] hanno individuato un serie di fattori spesso responsabili dei disallineamenti. Tra questi citiamo:

  • la non corretta definizione degli obiettivi, soprattutto quando non vengono adeguatamente spiegati e motivati. Succede quando vengono percepiti come non coerenti con le condizioni di mercato o con il target di clientela, quando non sono chiaramente espressi in termini qualitativi e quantitativi. Gli obiettivi non sono solo un numero e le direzioni devono fare in modo di trasmettere la loro natura interiore, la loro anima; senza tutto ciò non può esserci visione, ambizione a raggiungerli e coinvolgimento;
  • l’assenza di chiarezza nei ruoli professionali, nel senso di esigenza di delineare i profili in modo adeguato in modo da tenere coerentemente legate le persone alle attività che devono svolgere e favorire il completamento di tutto il processo lavorativo che il team deve esprimere, dalle attività più prestigiose a quelle più umili, dalle attività straordinarie alle routine;
  • le procedure scadenti, nel senso di indisponibilità di supporti informativi (manuali, circolari, faq) ben scritti, snelli, chiari, tutelanti, a cui invece occorre attribuire centralità per la migliore diffusione del knowledge aziendale;
  • la rottura dell’equilibrio tra obiettivi individuali e obiettivi di squadra, poiché l’unica forza che guida le persone verso una potente tensione volta a raggiungere i risultati richiesti trae energia dai desideri personali che ciascuno porta con sé con un personalissimo livello di priorità. In questo caso è il riequilibrio del carico tra le esigenze aziendali e le esigenze dei singoli che mantiene il team performante;
  • la scarsa leadership, nel senso di manifesta inadeguatezza della persona designata nel ruolo. Il team percepisce molto velocemente questa mancanza che può manifestarsi in comportamenti che trasmettono insicurezza o testardaggine, in azioni orientate al consolidamento del ruolo basate più sul sistema relazionale che sulle oggettive capacità, più sul ricercare consensi in sottogruppi che sulla costruzione di relazioni trasparenti con ciascuna persona del gruppo; sicuramente i membri del team non si sentiranno protetti e tutelati e la loro performance globale ne risentirà;
  • l’assenza o il limitato ricorso al feedback reciproco leader-membri del team, poiché non si può prescindere da questa pratica continua che dovrebbe accompagnare il fluire di ogni processo. Può, anzi probabilmente deve, essere personalizzata da specifici stili manageriali e sulla base dei modelli relazionali del gruppo, senza sottovalutare l’importanza strategica che ha quando risulta negativo;
  • i sistemi premianti poco chiari, quando non sono trasparenti, quando vengono rivisti in itinere, quando vengono concepite deroghe ad personam, quando gli importi vengono adeguati ex-post se l’impatto complessivo supera il budget previsto;
  • l’ambiente tossico, in termini di contesto oggettivamente ostile al lavoro di squadra. Può dipendere da diversi fattori: da eccesso di concorrenza come anche da eccesso di collaborazione, dalla cosiddetta tirannia della squadra che porta le direzioni a far fare tutto al team perché “team è bello” (ad ogni costo), da forme di assemblaggio di persone senza le condizioni minime per un lavoro organizzato in team, da contesti aziendali predatori che “indossano” lo spirito collaborativo senza averne minimamente la cultura;
  • l’emersione di difficoltà tra i membri del team con i processi di cambiamento, che rappresenta un delicato campanello di allarme proprio perché l’organizzazione in squadra dovrebbe consentire il più alto livello di adattabilità alle sfide del cambiamento rispetto ai tradizionali gruppi di lavoro. A prescindere dal livello di sensibilità medio dei membri del team alla tematica, ogni leader deve sempre tener conto che: può provocare disagi variabili alle persone (a cosa devo rinunciare? sarò più solo/a? sosterranno questa fase?), le persone hanno diversi livelli di disponibilità al cambiamento (entusiasmo contro rifiuto, con tutte le sfumature che ci stanno in mezzo), le persone spesso pensano che per poterlo gestire occorrano risorse aggiuntive, le persone potrebbero ritenerlo temporaneo e, con effetto elastico, ritornare ai vecchi comportamenti.

 

[1] Katzenbach, J. R. and Smith, D.K. (1993), The Wisdom of Teams: Creating the High-performance Organisation, Harvard Business School, Boston.

[2] Pascale, R. T. and Athos, A. G. (1981), The Art of Japanese Management, Simon and Schuster, New York.

[3] Semler, R. (2007), Senza gerarchie al lavoro, Bompiani, Milano.

[4] Metodologia sviluppata inizialmente nell’ambito dello sviluppo software oggi estesa ai vari ambiti del management che si basa su un approccio innovativo customer-driven in grado di coniugare governance e le flessibilità necessarie per rispondere ai continui cambiamenti.

[5] Robbins H. and Finley M. (2000), Why teams don’t work: what went wrong and how to make it right, Texere Publishing, Knutsford.

 

 

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