di David Nerini
05/10/2025
Il Trattamento di Fine Rapporto (TFR) è retribuzione differita che matura di anno in anno e viene liquidata alla cessazione del rapporto. Comprenderne il meccanismo di accumulo, le regole di rivalutazione e il trattamento fiscale permette di comunicare con chiarezza al lavoratore ciò che accade al suo montante e di confrontarlo correttamente con l’andamento della dinamica dei prezzi e con le alternative di lungo periodo.
Come si accumula il TFR in azienda
La quota di TFR che matura in ciascun anno è pari alla retribuzione utile dell’anno divisa per 13,5. Per retribuzione utile si intendono, in termini generali, tutte le somme corrisposte in dipendenza del rapporto, incluse le mensilità aggiuntive, con le esclusioni e le precisazioni previste dall’articolo 2120 del Codice civile e dalla prassi applicativa. Il montante risultante al 31 dicembre dell’anno precedente viene poi rivalutato con un tasso composto dato dalla somma tra una parte fissa pari all’1,5% e una parte variabile pari al 75% della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati al netto dei tabacchi (FOI), calcolata su base dicembre su dicembre. La quota maturata nell’anno non è oggetto di rivalutazione nello stesso anno, ma entrerà a far parte del montante da rivalutare a partire dall’anno successivo.
L’articolo 2120 del Codice civile stabilisce che per ogni anno di servizio matura una quota di TFR pari alla retribuzione dovuta divisa per 13,5. Questo genera una valorizzazione pari al 7,41% lordo. Successivamente, su questo accantonamento lordo, il datore di lavoro è tenuto a versare lo 0,50% al Fondo di Garanzia INPS (ex art. 2 L. 297/1982), che tutela i lavoratori in caso di insolvenza aziendale. Nelle aziende private che impiegano almeno 50 addetti, le quote di TFR maturando non destinate alla previdenza complementare devono essere versate al Fondo di Tesoreria INPS. Per il lavoratore nulla cambia in termini di regole economico‑giuridiche: il TFR resta disciplinato dall’articolo 2120 del Codice civile, mentre si modificano i flussi finanziari e gli adempimenti del datore (compilazioni Uniemens, conguagli e versamenti connessi).
In buona sintesi, pertanto, dal punto di vista del datore di lavoro:
- Accantonamento TFR: 7,41% della retribuzione utile;
- Contributo al Fondo di Garanzia: 0,50% della retribuzione utile;
- Costo complessivo aziendale: 7,91%.
mentre dal punto di vista del lavoratore:
- Quota TFR maturata e accreditata: 7,41%;
- Il contributo allo 0,50% rappresenta un costo aggiuntivo per l’azienda, non una decurtazione del TFR del dipendente.
Come valutare la “performance” del TFR rispetto all’inflazione
Per confrontare il TFR con l’inflazione occorre partire dalla sua rivalutazione lorda, data da 1,5% più 0,75 volte l’inflazione FOI al netto dei tabacchi.
La condizione di pareggio tra rivalutazione del TFR e inflazione si ottiene facilmente risolvendo la seguente equazione (dove i = tasso di inflazione)
1,5% + 0,75i = i
Risolvendo quindi i = 6%, che identificherebbe la soglia di inflazione al di sotto della quale il TFR batterebbe l’inflazione e al di sopra della quale verrebbe invece battuto dall’inflazione.
Questo risultato è però teorico, poiché la rivalutazione del TFR è soggetta annualmente a un’imposta sostitutiva del 17%, che ne riduce il rendimento effettivo. In altre parole:
Rivalutazione netta = Rivalutazione lorda × (1 – 0,17) = Rivalutazione lorda × 0,83
Occorre quindi inserire questa considerazione nella nostra equazione:
(1,5% + 0,75i) × 0,83 = i
Risolvendola otteniamo i = 3,3%, che identica la soglia effettiva di inflazione che il punto di pareggio, quindi:
- con inflazione inferiore al 3,3%, il TFR mantiene/aumenta il potere d’acquisto;
- con inflazione superiore al 3,3%, il TFR perde potere d’acquisto in termini reali.
Ad esempio, con un’inflazione al 2,0%, la rivalutazione netta del TFR si otterrebbe così:
0,83 × (1,5 + 0,75 × 2,0) = 2,49%
con un risultato pertanto superiore all’inflazione.
Mentre con inflazione al 5%, la rivalutazione netta del TFR si otterrebbe così:
0,83 × (1,5 + 0,75 × 5,0) = 4,36%
con un risultato quindi peggiore rispetto all’aumento dei prezzi.
Tassazione del TFR in fase di liquidazione
Alla cessazione del rapporto, il TFR (depurato delle rivalutazioni già assoggettate a imposta sostitutiva) è tassato con il regime della tassazione separata. L’imposta viene calcolata applicando l’aliquota media dei cinque anni precedenti a quello in cui matura il diritto alla percezione, determinata sul reddito complessivo; il datore effettua un prelievo provvisorio in qualità di sostituto d’imposta e l’Agenzia delle Entrate procede successivamente alla liquidazione definitiva, con eventuali conguagli o rimborsi. La base imponibile della tassazione separata è costituita dal TFR complessivo al netto della rivalutazione già tassata al 17%.
Le rivalutazioni annuali seguono un binario fiscale distinto: ogni anno il datore calcola la rivalutazione maturata sul montante al 31 dicembre dell’anno precedente e versa l’imposta sostitutiva del 17% con le ordinarie scadenze di acconto e saldo. In caso di cessazione infra‑annuale, la rivalutazione si determina fino alla data di cessazione e l’imposta sostitutiva si applica sulla sola quota maturata sino a quel momento.
Quando considerare la previdenza complementare come alternativa?
La scelta tra mantenere il TFR in azienda e destinarlo alla previdenza complementare non è una questione di giusto o sbagliato, ma di allineamento tra caratteristiche dello strumento e circostanze individuali del lavoratore.
La previdenza complementare manifesta i suoi vantaggi strutturali principalmente quando si verifica una convergenza di fattori specifici. L’orizzonte temporale rappresenta la variabile più determinante: con almeno quindici-venti anni davanti alla pensione, la volatilità di breve periodo dei mercati finanziari viene assorbita, consentendo alla componente azionaria dei fondi pensione di esprimere il suo potenziale di crescita. Il TFR, per quanto garantito, è costruito per proteggere il capitale piuttosto che per farlo crescere significativamente: la sua logica è conservativa, adatta a chi privilegia la certezza sull’opportunità.
La contribuzione aziendale aggiuntiva cambia radicalmente l’equazione. Quando l’impresa offre un contributo aggiuntivo (tipicamente dall’1% al 4% della retribuzione, come previsto in tutte le adesione ai fondi negoziali), si tratta di risorse che incrementano immediatamente il montante previdenziale senza alcun costo per il lavoratore. Anche con rendimenti modesti del fondo pensione, questa componente può compensare ampiamente il differenziale con la rivalutazione del TFR. Il contesto inflazionistico rappresenta un ulteriore fattore discriminante: quando l’inflazione supera strutturalmente il 3-4%, il meccanismo di rivalutazione del TFR (che copre solo il 75% dell’inflazione oltre l’1,5% fisso) genera un’erosione reale del potere d’acquisto. In questi scenari, un fondo pensione con componenti azionarie o immobiliari può offrire una protezione superiore, fungendo da hedge naturale contro l’inflazione.
La leva fiscale merita attenzione particolare. I contributi versati al fondo pensione sono deducibili fino a 5.164,57 euro annui, generando un risparmio fiscale immediato che può arrivare al 43% per i redditi più elevati. Questo vantaggio rappresenta un rendimento certo che si aggiunge al potenziale di crescita del capitale investito. Inoltre, la tassazione finale sulla previdenza complementare è progressivamente più favorevole quanto più lungo è il periodo di permanenza, con aliquote che possono scendere fino al 9% dopo 35 anni.
La diversificazione del rischio costituisce un aspetto spesso sottovalutato. Mantenere l’intero TFR in azienda significa concentrare una quota rilevante del patrimonio previdenziale sul destino di un singolo datore di lavoro. La previdenza complementare offre invece segregazione patrimoniale completa e diversificazione su centinaia di strumenti finanziari, eliminando il rischio di controparte. Questo elemento diventa particolarmente rilevante per chi lavora in settori ad alta volatilità o in aziende di dimensioni medio-piccole.
Dal punto di vista generazionale, la previdenza complementare risulta particolarmente attraente per i lavoratori più giovani, che possono permettersi una maggiore esposizione al rischio e hanno la capacità temporale di recuperare eventuali perdite. Al contrario, chi si avvicina alla pensione potrebbe ragionevolmente privilegiare la certezza del TFR, evitando l’esposizione a shock di mercato nei mesi precedenti la liquidazione.
In sintesi, la previdenza complementare si configura come scelta ottimale quando convergono: orizzonte temporale lungo, contribuzione aziendale aggiuntiva, inflazione strutturalmente elevata, propensione al rischio compatibile con gli investimenti di mercato e consapevolezza dei vantaggi fiscali.
Conclusioni
L’analisi del TFR e delle sue alternative richiede una comprensione tecnica precisa dei meccanismi sottostanti. La quota di accantonamento del 7,41% (1/13,5) rappresenta il diritto effettivo del lavoratore, mentre lo 0,50% destinato al Fondo di Garanzia costituisce un costo accessorio aziendale che non incide sul montante maturato quando il TFR rimane in azienda. Diversamente, nella previdenza complementare questa quota non transita al fondo pensione, riducendo il conferimento effettivo al 6,91%. Il meccanismo di rivalutazione del TFR (1,5% fisso + 75% dell’inflazione), al netto della tassazione al 17%, mantiene il potere d’acquisto fino a una soglia inflazionistica del 3,30%: oltre questo limite, il TFR inizia a perdere valore reale.
La scelta tra TFR in azienda e previdenza complementare non può dunque essere univoca, ma deve considerare l’interazione tra orizzonte temporale, contesto inflazionistico, contribuzione aziendale aggiuntiva, vantaggi fiscali e propensione individuale al rischio. Per le funzioni HR, questa complessità si traduce in una responsabilità consulenziale: fornire ai lavoratori gli strumenti informativi per decisioni previdenziali consapevoli, personalizzate e dinamicamente adattabili all’evoluzione delle condizioni economiche.
La gestione strategica del TFR rappresenta pertanto un elemento distintivo delle politiche di people management orientate alla valorizzazione del capitale umano nel lungo periodo.
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