Ipotesi TFR come “ponte” per l’uscita a 64 anni: impatti, pro/contro e alternative Usare il TFR lasciato in azienda per integrare l’assegno e raggiungere i requisiti della pensione anticipata contributiva: cosa cambierebbe, per chi conviene e quali sono le opzioni migliori da valutare

di David Nerini
10/09/2025

 

Negli ultimi mesi è emersa l’ipotesi – a livello di indirizzo politico – di consentire ai lavoratori che hanno il TFR lasciato in azienda (per le imprese con almeno 50 addetti, affluito al Fondo di Tesoreria INPS), di convertirlo in una rendita temporanea utile a colmare la soglia minima richiesta per l’uscita a 64 anni nel canale contributivo. Ad oggi non esiste un provvedimento in Gazzetta Ufficiale che disciplini tale facoltà: l’analisi che segue valuta impatti, vantaggi e rischi nell’ipotesi che la misura venisse trasformata in legge, con richiami ai riferimenti normativi oggi vigenti.

 

Il contesto: come si intrecciano TFR, Fondo di Tesoreria, uscita a 64 anni e RITA

In Italia il TFR (trattamento di fine rapporto) è una componente di retribuzione differita che matura ogni anno e viene rivalutata secondo criteri di legge. Il lavoratore, all’atto dell’assunzione o nelle finestre previste, può scegliere se conferire il TFR alla previdenza complementare (fondi negoziali, fondi aperti o PIP) oppure lasciarlo in azienda.

Dal 2007, per i datori di lavoro con almeno 50 addetti, il TFR maturando dei dipendenti che non lo hanno conferito a una forma pensionistica complementare confluisce al Fondo di Tesoreria presso l’INPS. In questo caso, il capitale resta contabilizzato dall’INPS e viene erogato alla cessazione del rapporto (ferme restando le anticipazioni consentite dalla legge in costanza di rapporto).

Sul versante pensionistico, i lavoratori nel sistema contributivo possono accedere al canale di uscita a 64 anni a condizione di rispettare requisiti anagrafico‑contributivi e, soprattutto, di raggiungere una soglia minima di importo pari a un multiplo dell’assegno sociale. Per molti, l’ostacolo pratico è proprio colmare questo gap di importo.

Qui entra in gioco la RITA (Rendita integrativa temporanea anticipata): chi ha conferito il TFR (e altri contributi) a una forma pensionistica complementare può utilizzare il montante accumulato per costruire una rendita‑ponte fino all’età di vecchiaia, secondo le regole del D.Lgs. 252/2005. Chi invece ha lasciato il TFR in azienda e, per effetto della dimensione d’impresa, lo vede giacere nel Fondo di Tesoreria INPS, oggi non dispone di un meccanismo analogo.

L’ipotesi oggetto di dibattito si colloca esattamente in questo varco: consentire l’utilizzo del TFR in Tesoreria come integrazione temporanea per superare la soglia economica richiesta a 64 anni, introducendo di fatto una sorta di “RITA pubblica” alternativa o complementare a quella delle forme pensionistiche.

 

Cosa (potrebbe) prevedere la misura

Lo schema più citato prevede la conversione del TFR in Tesoreria in una rendita temporanea erogata dall’INPS, da sommare alla quota di pensione maturata per raggiungere la soglia minima di importo richiesta per l’uscita a 64 anni. La misura inciderebbe solo sulla fonte di integrazione (TFR “fermo” in Tesoreria), non sulle regole di base per l’accesso al canale.

 

Impatti per i lavoratori

I principali benefici attesi potrebbero essere individuati nella:

  • Flessibilità in uscita: possibilità di accedere a 64 anni anche se l’assegno contributivo, da solo, non raggiunge la soglia; il TFR colmerebbe il “gap”.
  • Semplificazione operativa: il TFR è già incassato e censito dall’INPS (Fondo di Tesoreria) per le imprese obbligate; in ipotesi, la rendita potrebbe essere calcolata e pagata dallo stesso Ente.

Occorre però considerare anche le seguenti criticità:

  • Erosione della liquidazione: convertire il TFR in rendita riduce (o annulla) la disponibilità di capitale alla cessazione, limitando la capacità di far fronte a spese straordinarie o progetti personali (prima casa, salute, formazione figli).
  • Anticipazioni limitate: l’uso del TFR come rendita potrebbe confliggere con le anticipazioni già ammesse dall’art. 2120 c.c.; la futura norma dovrebbe chiarire priorità e compatibilità.
  • Fiscalità da definire: oggi la rivalutazione del TFR sconta un’imposta sostitutiva e il capitale è tassato con tassazione separata al momento dell’erogazione. La rendita da TFR necessiterebbe di un regime fiscale ad hoc (se assimilata alla previdenza complementare) o di regole specifiche (se distinta), con possibili impatti netti rilevanti.
  • Equità intergenerazionale: beneficerebbero soprattutto carriere continue e retribuzioni medio-alte (più TFR maturato). Giovani, discontinui e part-time avrebbero minori benefici.

 

Impatti per le imprese

Per le aziende con almeno 50 addetti (quello eventualmente interessate dalla misura), gli impatti più probabili potrebbero essere i seguenti:

  • Flussi correnti invariati: l’obbligo di versare il TFR maturando al Fondo di Tesoreria resterebbe immutato; l’eventuale rendita non altererebbe il costo del lavoro.
  • People strategy: la liquidazione a fine rapporto è oggi, di fatto, uno strumento di welfare aziendale implicito; consumarla per anticipare la pensione può ridurre la leva di retention e la capacità di assorbire shock personali dei dipendenti.

 

Impatti su INPS e finanza pubblica

Sul perimetro INPS e sui conti pubblici, gli effetti attesi potrebbero essere i seguenti:

  • Cassa e profili attuariali: la spalmatura del TFR in rendita migliorerebbe i flussi di cassa pubblici rispetto a un esborso una tantum; l’equilibrio attuariale dipenderebbe da coefficienti e tassi adottati.
  • Governance e processi: servirebbero basi tecniche (coefficienti di conversione del TFR in rendita), nuove procedure informatiche e coordinamento tra le direzioni INPS (pensioni/Tesoreria), oltre a linee guida su reversibilità, beneficiari e cumuli.

 

Impatti sull’ecosistema della previdenza complementare

Rispetto alla previdenza complementare, gli impatti potenziali potrebbero invece includere:

  • Effetto sostituzione: una “RITA pubblica” alimentata col TFR in Tesoreria potrebbe disincentivare il conferimento del TFR alle forme complementari ex D.Lgs. 252/2005, con impatto negativo su adesioni e montanti di lungo periodo.
  • Asimmetrie regolamentari: se il TFR-rendita godisse di un trattamento più favorevole (o più semplice) della RITA dei fondi, si creerebbero distorsioni competitive; occorrerebbe garantire neutralità tra canali.

 

Nodi giuridico-fiscali da sciogliere nel caso in cui la misura entrasse nell’impianto normativo

Prima di rendere operativa la misura andrebbe definito con chiarezza il perimetro giuridico e fiscale, così da evitare incertezze applicative e contenzioso. In primo luogo, la volontarietà dovrebbe essere tutelata con un processo di scelta esplicita e informata, corredato da simulazioni standard che mostrino al lavoratore l’effetto della conversione del TFR in rendita sulla futura liquidazione e sui flussi di cassa familiari. La documentazione dovrebbe esplicitare costi, eventuali caricamenti e regole di reversibilità.

Occorre poi il coordinamento con l’art. 2120 c.c. in tema di anticipazioni: l’ordinamento oggi consente prelievi del TFR in costanza di rapporto per bisogni specifici (spese sanitarie, prima casa, ristrutturazione, ecc.). La nuova disciplina dovrà chiarire se e come l’opzione di rendita incida su tali facoltà (priorità, compatibilità, limiti quantitativi), evitando conflitti tra diritti già previsti e il nuovo impiego previdenziale del TFR.

Sul versante fiscale, è dirimente stabilire se la rendita da TFR riceva un regime assimilato alla previdenza complementare (con aliquote sostitutive e tassazione sul rendimento) oppure resti nell’alveo della tassazione separata tipica del TFR, con imposta sostitutiva sulla rivalutazione annua. Le scelte su base imponibile, aliquote, eventuali detrazioni o crediti, nonché sui tempi di prelievo, incideranno in modo determinante sulla convenienza netta per diversi profili di reddito.

Parimenti importante è garantire neutralità competitiva rispetto alla RITA delle forme pensionistiche complementari: regole non allineate su costi, beneficiari, revoca, cumuli e pignorabilità rischierebbero di spostare adesioni e montanti con effetti distorsivi. Un set di basi tecniche omogenee (coefficienti di conversione, tassi di attualizzazione, gestione dei casi di premorienza) contribuirebbe a tale neutralità.

Infine, andranno disciplinate le tutele dei diritti maturati (designazione dei beneficiari, eventi di decesso o invalidità), la reversibilità della rendita, la tracciabilità dei flussi e i presìdi contro abusi, con procedure operative chiare tra le strutture INPS coinvolte (pensioni e Tesoreria) e tempi certi di lavorazione.

 

Possibili alternative 

Una prima direttrice riguarda il rafforzamento della RITA all’interno delle forme complementari: semplificare requisiti e adempimenti, migliorare gli strumenti di simulazione e ridurre i costi di erogazione renderebbe la rendita‑ponte più accessibile, senza intaccare la funzione del TFR quale cuscinetto di liquidità a fine carriera.

Un secondo filone è la stabilizzazione del silenzio‑assenso sul conferimento del TFR, con campagne informative continue e un opt‑out consapevole, specie per giovani e neoassunti. Una maggior diffusione dell’adesione accrescerebbe i montanti nel secondo pilastro, riducendo ex ante i casi di mancato raggiungimento della soglia a 64 anni.

In alternativa o in complemento, la reintroduzione di un prestito‑ponte con garanzia pubblica (una sorta di APE “volontaria 2.0”) consentirebbe di anticipare l’uscita finanziando il periodo 64‑67 anni con un credito rimborsato all’accesso alla vecchiaia, anche tramite una quota del TFR, senza consumarne integralmente il capitale.

Per platee fragili si potrebbe valutare una modulazione selettiva della soglia economica richiesta per l’uscita a 64 anni (ad esempio per famiglie numerose o carriere discontinue), bilanciando maggiore inclusione e sostenibilità finanziaria.

Infine, incentivi fiscali mirati ai versamenti nella previdenza complementare (dalla maggior deducibilità al matching contributivo per giovani, donne e redditi bassi) amplierebbero i montanti e renderebbero più efficace la RITA come strumento ordinario di flessibilità.

 

Conclusioni

L’uso del TFR in Tesoreria come rendita temporanea per raggiungere la soglia a 64 anni offre una risposta immediata a un’esigenza reale: colmare il divario tra pensione maturata e requisito economico. Tuttavia, il prezzo da pagare è la compressione della liquidazione finale, con effetti concreti sulla capacità delle famiglie di affrontare spese straordinarie o di sostenere progetti personali. La convenienza della misura dipenderà da regole fiscali e basi tecniche: senza un assetto chiaro e neutrale rispetto alla RITA dei fondi, il rischio è produrre distorsioni nel secondo pilastro.

Per le aziende con almeno 50 addetti, il cambiamento non altererebbe i flussi correnti verso la Tesoreria INPS, ma imporrebbe una rinnovata educazione previdenziale e strumenti di simulazione a supporto delle scelte dei dipendenti. Per i lavoratori, la valutazione andrà condotta in chiave di pianificazione finanziaria familiare, considerando il bilanciamento tra anticipo dell’uscita e disponibilità di capitale al termine del rapporto. Per i decisori pubblici, la priorità è costruire un impianto normativo trasparente, coerente e competitivo, che salvaguardi le finalità del TFR e valorizzi il ruolo della previdenza complementare nel lungo periodo.

 

 

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