Dato il peso che riveste (vale infatti il 6,91% della retribuzione lorda) la normativa gli attribuisce il ruolo fondamentale tra le fonti di finanziamento della previdenza complementare. L’accumulazione di un capitale idoneo ad una conversione in rendita in grado di adempiere effettivamente all’integrazione del cosiddetto primo pilastro, la previdenza pubblica, passa proprio dalla destinazione regolare di somme alla forma di previdenza complementare scelta: la quota versata dal lavoratore dipende da scelte individuali ed in ogni caso si configura come una sorta di risparmio mensile che viene sottratto ai consumi correnti, la quota del datore di lavoro (ove prevista) mediamente si colloca nel range 1-3%, di conseguenza è facilmente intuibile la centralità della quota di TFR che cambia natura, da retribuzione differita diviene un contributo rilevante per il piano pensionistico integrativo.
Il combinato disposto delle quote a vario titolo versate (TFR maturando, quota a carico aderente, eventuale quota a carico aziendale) dovrebbe permettere di ottenere una quantificazione di almeno il 10% per generare, su un orizzonte temporale di lungo termine, un effetto realmente integrativo della pensione pubblica.
Ricordiamo che la previdenza integrativa opera sulla base della capitalizzazione individuale dei contributi e dei risultati della gestione finanziaria fino al momento del pensionamento pubblico, epoca in cui l’aderente alle forme di previdenza complementare (con un minimo di cinque anni di partecipazione al fondo) potrà liberare le prestazioni finali del proprio piano pensionistico.
Nei sistemi pensionistici integrativi il meccanismo di capitalizzazione si differenzia completamente dai sistemi previdenziali pubblici, dove i contributi versati sono regolati in base al meccanismo della ripartizione e pertanto ciò che versano i lavoratori attivi costituisce il finanziamento delle rendite pensionistiche di chi è già in pensione.
La centralità che riveste il TFR nella costruzione di un piano di previdenza integrativa ha rischiato di essere seriamente compromessa con la sperimentazione del “TFR in busta paga” che, fortunatamente, non ha riscosso particolare successo.
Ricordiamo che tale sperimentazione è stata introdotta con la Legge di Stabilità 2015 e prevedeva la possibilità per i lavoratori dipendenti del settore privato di ottenere direttamente in busta paga, con regolamento mensile, un anticipo del trattamento di fine rapporto (in pratica oltre alla normale retribuzione sul cedolino paga si trovava anche la quota maturata mensilmente).
La scelta rispondeva ad una valutazione di carattere meramente personale legata all’esigenza di incrementare le entrate mensili, spostando di fatto quell’importo dall’accontamento periodico fatto dal datore di lavoro a titolo di TFR o dal finanziamento della forma di previdenza complementare scelta. Fortunatamente il 30 giugno 2018 si è conclusa la sperimentazione e con essa il rischio di compromettere le scelte di previdenza complementare.
La percentuale dei lavoratori che hanno provato lo strumento si è attestata a circa il 2,6%, molto probabilmente anche scoraggiata dal fatto che per quella via il TFR sarebbe stato tassato in modo ordinario e, incrementando il reddito, avrebbe impattato su tutto ciò che ad esso è legato (detrazioni, assegni familiari, agevolazioni Isee e via dicendo).
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