Maternità: l’integrazione al 100% non è welfare esente L’Agenzia delle Entrate (Risposta 57/2024) chiarisce che versare nel conto welfare la differenza tra indennità INPS e stipendio per arrivare al 100% durante il congedo parentale è reddito tassabile: è una somma che sostituisce la retribuzione e riguarda solo le neomamme. Analizziamo quali strumenti sono realmente esenti per sostenere il rientro.

di David Nerini
22/10/2025

La Risposta n. 57/2024 dell’Agenzia delle Entrate affronta un tema particolarmente interesse. In buona sostanza ci si domanda se sia possibile riconoscere senza tassazione, in forma di credito welfare, un importo pari all’integrazione della retribuzione al 100% nei tre mesi successivi all’astensione obbligatoria, a favore di quelle lavoratrici che proseguono con il congedo parentale. L’Agenzia fornisce un orientamento netto che incide sul disegno dei piani aziendali e sul trattamento fiscale in busta paga.

La risposta si origina da un quesito posto da un’azienda che intendeva accreditare, nel conto welfare individuale, la differenza tra l’indennità INPS di maternità facoltativa e il 100% della retribuzione lorda per tre mesi, a partire dal termine dell’astensione obbligatoria, chiedendo se tale erogazione potesse beneficiare della non imponibilità. In altre parole, quando la lavoratrice entra in congedo parentale, non percepisce il normale stipendio ma una indennità INPS (più bassa della retribuzione ordinaria). L’azienda, per non farle perdere potere d’acquisto, avrebbe voluto coprire la differenza  tra ciò che paga l’INPS e il 100% della retribuzione lorda che lei avrebbe preso lavorando, e farlo per tre mesi. In pratica si intendeva versare alla dipendente, agendo tramite il conto welfare, un importo che integrasse la prestazione INPS fino a pareggiare lo stipendio pieno.

L’Agenzia, con la risposta citata, ribadisce il principio di onnicomprensività del reddito di lavoro dipendente, ossia tutte le somme e i valori percepiti “a qualunque titolo” in relazione al rapporto di lavoro concorrono al reddito, salvo specifiche deroghe tassativamente previste dai commi 2 e 3 dell’art. 51 TUIR. Le deroghe valgono solo se non si traduce in un aggiramento dei criteri ordinari di determinazione del reddito. In particolare, quando i benefit hanno finalità retributive (ad esempio incentivi alla performance o a gruppi ben individuati), l’esenzione non si applica.

Per essere esenti, le opere/servizi di welfare devono essere messi a disposizione della generalità dei dipendenti o di categorie omogenee legate al lavoro (tipologia/livello/turno, ecc.), ma mai ad personam. Non è pertanto possibile qualificare come categoria una condizione che si leghi a situazioni personali o familiari del dipendente. Questo punto è decisivo nel caso in esame.

La conclusione dell’Agenzia: l’integrazione al 100% è imponibile

Nel caso prospettato, il credito welfare sarebbe alimentato dalla differenza tra indennità INPS e retribuzione fissa che spetterebbe al rientro: si tratta quindi di una mera erogazione sostitutiva di retribuzione. Inoltre, il criterio di accesso è lo status di maternità, che non configura una categoria di dipendenti in senso fiscale. Ciò pertanto determina che le somme assumono rilevanza reddituale ex art. 51, comma 1, TUIR, con tassazione ordinaria in capo alla lavoratrice.

Sul piano operativo, la misura di integrazione al 100% riconosciuta alle sole lavoratrici in congedo parentale non può essere quindi traslata su un conto welfare con esenzione: va trattata come retribuzione imponibile ai fini IRPEF e contribuzione, con gli ordinari obblighi di ritenuta.

Come progettare misure pro-genitorialità in compliance con la normativa?

Il principio di onnicomprensività e i confini delle deroghe impongono un attento controllo delle causali di alimentazione dei conti welfare e delle platee di destinatari. Per sostenere concretamente il rientro dalla maternità e la genitorialità senza rischi fiscali, occorre spostare il baricentro dalle “somme sostitutive di retribuzione” a “prestazioni di rilevanza sociale” erogate alla generalità o a categorie legate al lavoro.

La prassi definisce welfare aziendale le prestazioni in natura o rimborsi spese di rilevanza sociale escluse dal reddito, se offerte a generalità/categorie e non ad personam. Esempi tipici includono servizi educativi per i figli, assistenza familiare, convenzioni e servizi che non si risolvano in erogazioni monetarie sostitutive. L’importante è che l’accesso non sia condizionato a un dato personale/familiare, ma sia riconosciuto a platee neutrali sul piano fiscale (es. tutti i dipendenti della sede X o di un certo livello), anche se, di fatto, se ne avvantaggeranno soprattutto i genitori.

Resta percorribile, se coerente con la strategia retributiva, la leva dei premi di risultato convertibili in welfare secondo la disciplina speciale della legge 208/2015: è l’unica eccezione citata dall’Agenzia quando il piano sia alimentato da quote retributive, purché si rispettino requisiti e limiti della normativa di riferimento.

Conclusioni 

La Risposta n. 57/2024 dice una cosa chiara: se l’azienda usa il conto welfare per integrare fino al 100% lo stipendio delle sole lavoratrici in congedo parentale, quell’importo è retribuzione a tutti gli effetti e quindi va tassato e contribuito. Il motivo è duplice: da un lato l’integrazione sostituisce lo stipendio (non è un beneficio in natura), dall’altro la platea è definita da una condizione personale/familiare (maternità), che non costituisce una categoria ammessa ai fini dell’esenzione.

Di conseguenza, l’eventuale integrazione va gestita in busta paga come reddito imponibile, con ritenute fiscali e contributive ordinarie e con la relativa certificazione.

Se l’obiettivo è sostenere davvero il rientro, conviene puntare su prestazioni di welfare esenti e fruibili dalla generalità o da categorie legate al lavoro: servizi educativi e di cura, supporto alla conciliazione, convenzioni e servizi non monetari coerenti con l’art. 51 TUIR. Quando serve una leva economica, si può valutare la ormai nota strada dei premi di risultato convertibili in welfare secondo la disciplina specifica: è l’unico caso in cui somme retributive possono diventare esenti, rispettando requisiti e limiti previsti.

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