Burn-out: cos’è e come si identifica. Un fenomeno studiato a partire dagli anni Settanta e che oggi stimola aziende ed organizzazioni ad implementare specifiche azione volte a disinnescarlo.

Il burn-out si può definire come uno stato di esaurimento fisico, emotivo, mentale, una situazione di depersonalizzazione e riduzione della realizzazione personale, causato da un coinvolgimento a lungo termine in situazioni emotivamente impegnative.

Il burn-out trova iniziale riconoscimento come forma di problema sociale e non come risultato di percorsi di studi accademici; le prime formulazioni pertanto sono state plasmate prevalentemente sull’esigenza di dare risposte a preoccupazioni pragmatiche. Possiamo identificare due momenti, una fase iniziale (pionieristica) dove lo sviluppo concettuale è stato fondato sulle descrizioni cliniche del fenomeno. La fase successiva invece è stata prevalentemente empirica finalizzata alla sua valutazione e alle attività di ricerca per correlare l’evoluzione del concetto di burn-out con la definizione di quadri concettuali di riferimento che si sono andati via via definendo.

Due psicologi statunitensi a metà degli anni Settanta, Herbert Freudenberger[1] e Christina Maslach[2], sono stati i primi a parlarne, fornendo una rappresentazione iniziale del fenomeno e dando battesimo ufficiale al nome. Si evidenziava inoltre che costituiva un aspetto, una risposta psicofisica non ascrivibile ad un numero ristretto di individui, ma si trattava di qualcosa di ben più comune e diffuso.

Curioso inoltre l’aneddoto che porta al nome. Sembra infatti che il termine in sé sia stato usato per la prima volta nell’ambito sportivo negli anni Trenta per indicare l’incapacità di un atleta, dopo alcuni successi, di ottenere ulteriori risultati o mantenere quelli acquisiti. In tal senso pertanto i termini “bruciato” ed “esaurito” spiegavano quel contesto. Successivamente Freudenberger rilevò, tra i volontari che prestavano servizio presso una struttura di assistenza sanitaria dove lavorava, un graduale esaurimento emotivo associato ad una perdita di motivazione e impegno. Mediamente questo processo richiedeva circa un anno ed era accompagnato da una varietà di sintomi mentali e fisici. Per denotare questo particolare stato mentale di esaurimento, usò quella parola, burn-out appunto. Più o meno nello stesso periodo, Maslach stava studiando le reazioni emotive sui luoghi di lavoro, in particolare quelle forme di distacco che alla lunga incidono sull’identità professionale e sul comportamento dell’individuo. Quando per caso descrisse i risultati che stava osservando ad un avvocato di sua conoscenza, questo le raccontò proprio che la stessa cosa accadeva nei legali assegnati di ufficio alle persone più povere e che chiamavano informalmente burn-out. Adottato questo termine da Maslach e dai suoi colleghi, scoprirono ben presto che trovava immediato riconoscimento nei loro intervistati.

Gli anni Ottanta sono stati una decade dove il lavoro sul burn-out si è rivelato particolarmente ricco di spunti. Diversi autori hanno fornito i propri contributi basati su un approccio di studio empirico al fenomeno (sondaggi, questionari, interviste, casi clinici). Sono stati gli anni che hanno visto l’introduzione di strumenti di misurazione; i modelli metodologi più utilizzati ed accettati sono stati il MBI (Maslach Burnout Inventory) e il TM (Tedium Measure), intorno ai quali libri, articoli su riviste accademiche, seminari hanno avuto modo di amplificare la diffusione della conoscenza del fenomeno.

La ricerca empirica sul burn-out si è concentrata prevalentemente sui fattori legati al luogo di lavoro dell’individuo. Tra le variabili indagate dai ricercatori troviamo: la soddisfazione lavorativa, lo stress lavorativo (carichi di lavoro, conflitti ed ambiguità di ruolo), gli episodi di allontanamento dal lavoro (pensionamento, turnover, assenteismo), le aspettative lavorative, le relazioni con colleghi e responsabili, relazioni con clienti e fornitori, il ruolo svolto in azienda, il tempo di lavoro, le politiche aziendali e così via.

Le indagini che hanno riguardato aree di origine extra lavorativa hanno visto considerare variabili demografiche (sesso, età, stato civile, ecc.), della personalità (ad esempio locus of control[3] e hardiness[4]), della salute personale, delle relazioni con la famiglia e gli amici (che costituiscono forme naturali di sostegno nella vita privata dell’individuo) e dei valori personali. In generale si è riscontrato che i fattori lavorativi risultavano più fortemente correlati al burn-out.

Anche studi successivi metodologicamente più sofisticati[5] hanno confermato sostanzialmente queste evidenze e giunti a tre principali conclusioni:

  • il livello di burn-out si caratterizza per una certa stabilità nel tempo, evidenziando pertanto una natura prettamente cronica piuttosto che acuta del fenomeno;
  • il burn-out produce sintomi fisici ed effetti concreti sulla prestazione lavorativa (assenteismo, turnover, ecc);
  • gli aspetti tipicamente connessi all’organizzazione del lavoro (incomprensioni sul ruolo assegnato, assenza di riconoscimenti, iper-produzione di input da parte delle direzioni, ecc) associati alla mancanza di sostegno sociale (orizzontale e verticale) da parte di colleghi e responsabili costituiscono fenomeni sempre antecedenti al burnout.

Sebbene siano stati compiuti molti progressi, e non mancheranno sicuramente ulteriori avanzamenti sull’argomento, ci sono tre domande rispetto alle quali occorre ancora definitivamente “chiudere il cerchio”:

  1. Il burn-out è una sindrome a sé che può essere distinta da altre situazione correlate, come lo stress lavorativo, la depressione e l’insoddisfazione lavorativa?

Non ci sono confini netti e cercare di stabilire certe divisioni potrebbe condurre a risultati artificiosi. Ciò che si può fare è mettere in relazione burn-out e stress rispetto al tempo, e burn-out e depressione/insoddisfazione rispetto al dominio.

Il burn-out può essere infatti considerato come uno stress lavorativo prolungato, derivante pertanto da richieste continue sul posto di lavoro che incidono e superano le risorse di un individuo. Questa prospettiva temporale più lunga è implicita anche nella terminologia, poiché il burn-out si esprime proprio con un esaurimento di risorse psico-fisiche che si sviluppa su un orizzonte di medio/lungo termine. In altre parole, stress e burn-out non possono essere distinti sulla base dei loro sintomi, ma solo sulla base del processo.

Diverse impostazioni teoriche prevedono che il burn-out sia correlato alla depressione e all’insoddisfazione sul lavoro. Appare però piuttosto difficile dimostrare una relazione così stretta tale che entrambi i concetti possano essere interpretati come indici dello stesso costrutto sottostante. Qui si inseriscono criticità tipiche dei sistemi di misurazione, che posso restituire risultati sia con alta che con bassa correlazione in ragione di variabili confondenti non identificate.

  1. Il burn-out è limitato alle professioni dei servizi alla persona o è un fenomeno più generale che si riscontra anche in altre occupazioni o addirittura al di fuori della sfera lavorativa?

Si osserva in modo rilevante in tutti quei contesti dove la prestazione lavorativa ha a che fare con i servizi alla persona (si pensi alla professioni sanitarie) dove lo status del paziente (ed il contesto operativo) diviene un acceleratore che impatta in modo decisivo sul processo di sviluppo del fenomeno.

Il concetto di burn-out trova comunque proliferazione oltre questi confini, estendendosi anche in altri settori professionali. Oltre alla professioni sanitarie (medici, infermieri, psicologi) infatti occorre considerare i servizi sociali, l’istruzione, il settore militare, l’industria tecnologica (in particolare coloro che operano nei diversi ambiti del software che richiede sessioni di lavoro lunghe, stressanti e con scadenze serrate), la finanza (consulenti nelle reti di vendita ad esempio fortemente esposti alle pressioni sugli obiettivi) e l’imprenditoria.

Tutti questi settori comportano, in modo differenziato, una relazione con un cliente interno e/o esterno. È pertanto sempre essenziale l’interazione tra le persone, che costituisce elemento centrale della prestazione lavorativa.

Risulta invece più controversa l’estensione di questo paradigma ad ambiti non lavorativi. Si pensi ad esempio alla sua applicazione nei rapporti genitore/figlio o marito/moglie; anche in questi contesti è sicuramente possibile traslare la dinamica fornitore/ricevente, ma occorre domandarsi se gli effetti di tale relazione (infelicità, frustrazione, insoddisfazione) siano associabili ad una forma di burn-out. Su questa via si sta orientando un filone di studi.

  1. Esistono criteri diagnostici che consentano di identificare il burn-out in un individuo?

La sintomatologia clinica associata al burn-out prevede: stanchezza, distacco, noia, cinismo, impazienza, irritabilità, senso di onnipotenza, sospetto di non essere apprezzati, paranoia, disorientamento, negazione dei sentimenti e disturbi psicosomatici. L’esaurimento fisico si caratterizza per bassa energia, stanchezza cronica e debolezza. L’esaurimento emotivo si manifesta principalmente attraverso sentimenti di impotenza, disperazione e intrappolamento mentre l’esaurimento mentale si esprime attraverso lo sviluppo di atteggiamenti negativi verso se stessi, il lavoro e la vita stessa.

Nel tempo, man mano che le metodologie di indagine e gli strumenti di misurazione si sono sempre più perfezionati, si sono succedute diverse definizioni di burn-out; si può dire però che tutte continuano a condividere cinque elementi:

  • la predominanza di sintomi disforici come esaurimento mentale, fisico ed emotivo;
  • il porre l’accento sui sintomi mentali e comportamentali piuttosto che su quelli fisici;
  • la correlazione con la prestazione lavorativa;
  • il fatto che i sintomi si manifestino in persone “normali”, che prima cioè non soffrivano di psicopatologie;
  • la diminuzione delle prestazioni lavorative si verifica a causa di atteggiamenti e comportamenti sostanzialmente negativi.

Il burn-out è sicuramente un fenomeno individuale ma ha la capacità di estendersi nei gruppi di lavoro e pertanto nelle organizzazioni; può essere il segnale dell’esistenza di un ambiente tossico e dovrebbe pertanto trovare immediata risposta da parte delle direzioni aziendali per gli impatti anche economici che può generare.

Sulla carta le aziende hanno compreso l’importanza di prevenire il fenomeno. Sono frequenti ad esempio l’adozione di programmi di gestione dello stress, di politiche di lavoro più flessibili, di attenzione verso le esigenze dei dipendenti in ottica di bilanciamento tra vita professionale e vita privata; ciò che ancora si riscontra è un disallineamento tra dichiarazioni di principi-guida e applicazione nei singoli teams, dove ancora si riscontrano pratiche potenzialmente in grado di fungere da acceleratori del disagio tra gli individui.

 

[1] Freudenberger, H. J. (1974), Staff Burn-Out, Journal of Social Issues.

[2] Maslach, C. (1976) Burn-Out. Human Behavior

[3] In estrema sintesi indica la percezione del controllo degli eventi che ciascun individuo possiede e che può attribuire a fattori interni (dipendenti pertanto da se stesso) o a fattori esterni.

[4] In estrema sintesi indica uno stile di personalità attraverso il quale un individuo affronta, impegnandosi e resistendo attivamente in un progressivo processo di adattamento, eventi particolarmente coinvolgenti e stressanti.

[5] Dignam & West, 1988; Firth & Britton, 1989; Golembiewski & Munzenrider, 1988; Jackson, Schwab, & Schuler, 1986; Shirom, 1986; Wade, Cooley & Savicki, 1986; Wolfin, 1988.

 

 

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